Qualunque sardo che, figlio dell’Isola e delle sue credenze, se ne senta legato a doppio filo, non può non conoscere la parte oscura della Sardegna, quella dove alcune antiche leggende vengono tramandate a calori ‘e fogu e a bassa voce ancor oggi. Il culto dei defunti, le leggende intorno alla morte, il maniacale senso di perdita e di lutto che viene coltivato e innaffiato come un orto caro: tutto questo scorre nelle vene dei suoi abitanti.

Fanno parte di questa versione buia – ma assai affascinante – dell’Isola anche gli antichi canti funebri, i celebri attiti dei quali si occupavano perlopiù le attitadoras – préfiche.

Erano canti strazianti che esorcizzavano il dolore, che lo calmavano, che lo facevano uscire fuori, libero.

Ma ora – ahimè – questa pratica sta, mano a mano, scomparendo nei paesi della Sardegna, ed ecco perché il seuese Luigi Murgia, ormai quasi alla fine del suo percorso al corso di laurea di Etnomusicologia del Conservatorio di Cagliari, da sempre affascinato da ogni sfumatura cupa della Sardegna e dalle sue storie, ha deciso per la sua tesi di cercare di raccogliere gli attiti della Barbagia di Seulo.

«Mia nonna “cantava a morto”» racconta «e il fatto che quest’antica quanto affascinante pratica stia scomparendo ha fatto sì che mi imponessi una sorta di recupero della memoria.»

Ma c’era, perlomeno all’inizio, in questo suo lavoro di ricerca, anche una certa titubanza, legata al carattere intimo di questi canti: «Mi sembrava quasi di violare un’intimità austera, visto che i canti sono improvvisati, spontanei, dettati dal dolore, con un fine effimero che dovrebbe esistere giusto il momento in cui viene espresso per poi scivolare via con le lacrime. Purtroppo o per fortuna, chi fa ricerca e vuole tenere memoria, ha questo cruccio.»

Poche – racconta Murgia – anche le signore che continuano a tenere viva questa pratica a Seui: del resto, senza maestre che la insegnino ad altre donne, purtroppo, la sua sarà una sorte segnata. Di certo, quando gli attiti venivano fatti in maniera regolare in ogni veglia funebre, anni e anni or sono, non c’erano certo registratori o smartphone a cristallizzare il momento, imprimendolo su nastro: nonostante ciò, il materiale che Murgia è riuscito a trovare è abbondante.

«La memoria fantastica di queste donne ha conservato centinaia di frammenti di canti, a volte anche canti interi.»

Come se, sentiti anche una sola volta, non fosse un problema immagazzinarli, tanta era l’enfasi con cui erano prodotti.

«Trovare le persone giuste è stato un problema,» racconta lo studioso «anche perché si parla di persone molto anziane. Alcune poi non ne vogliono parlare, quasi come fosse una cosa da nascondere. Del resto, era un modo per esternare, esorcizzandolo, il dolore. Un qualcosa di intimo, di segreto.»

E per quanto riguarda la differenza tra paesi?, viene da chiedere.

«Be’, nella Barbagia di Seulo sono molto simili, cambia solo leggermente la musicalità. In altre parti della Sardegna, invece, sono molto differenti: altri toni, altri intercalari.»

Pochi sanno che la Chiesa li vietò, per un certo periodo.

«Quando si trattava per esempio di omicidi, durante la veglia si incitava alla vendetta, facendo anche nomi, seppur velati» spiega Murgia, che si porta fin da bambino il fascino per le antiche storie sarde, quelle che odorano di magia, di legame nebuloso tra morte e vita e di superstizioni. «Prima i racconti degli anziani erano interessanti sempre, li portavi con te anche una volta cresciuto.»

E forse è proprio così che l’amore per questa terra magica, dai paesaggi paradisiaci e incontaminati e dalle leggende atre come una notte senza luna, ci rende così speciali: figli di un luogo che ci tiene nel suo ventre con questo dualismo.

L’articolo Luigi Murgia, l’ogliastrino che studia gli attiti: «Questi canti funebri stanno scomparendo, voglio recuperarne la memoria» proviene da ogliastra.vistanet.it.


Fonte: Ogliastra News Michela Girardi